Appena pochi giorni fa, dopo una trafila fatta di lunghe discussioni, dichiarazioni d’intenti e, soprattutto, proroghe, si è arrivati a mettere il punto sulla questione che stava tenendo sulle spine un po’ tutti gli utenti di internet, ma soprattutto i “big provider” (come Instagram, Facebook, YouTube e Google): il voto sulla normativa del diritto d’autore della Comunità Europea.
Il risultato del voto è stato pressoché schiacciante: 348 favorevoli, 276 contrari e 36 astenuti, e lo scopo della modifica è cercare di obbligare colossi come Google, Facebook e YouTube a ripartire più equamente i proventi della condivisione dei contenuti editoriali con gli autori.
Con grande soddisfazione dei promotori della riforma, adesso i rapporti tra gli editori ed i grandi nomi di internet appena citati cambierà e si bilancerà in modo differente. Questo perché, dopo la riforma all’articolo 11, gli editori dovranno obbligatoriamente ricevere un compenso adeguato da parte dei “fornitori di servizi nella società dell’informazione”, ovvero gli accumulatori di contenuti come ad esempio Google e Facebook.
L’emendamento all’articolo però aggiunge che, se i contenuti protetti da copyright vengono pubblicati privatamente e/o non a scopo di lucro non si dovranno chiedere le licenze, e questo è il caso per esempio di Wikipedia, che nei mesi scorsi ha oscurato più volte la sua pagina, in segno di protesta e per sensibilizzare i suoi lettori sul pericolo di chiusura imminente.
Un’altra innovazione è l’upload filter, ovvero uno strumento, simile al content ID di YouTube, che serve ad evitare di far guadagnare coloro che finora hanno pubblicato contenuti non propri in modo indiscriminato. Più chiaramente, al momento in cui un utente condivide un contenuto protetto da copyright su un sito come Facebook, sarà quest’ultimo a bloccarlo immediatamente grazie a questo filtro. Se invece si presume che il contenuto sia originale, la pubblicazione verrà approvata fino a quando non arriverà un’eventuale segnalazione a riguardo.
Su questo aspetto, il sito Agenda Digitale pone dei dubbi e cerca di immaginare un possibile scenario, nel quale i “big provider” rinegoziano gli accordi con i detentori del diritto d’autore dei contenuti pubblicati sulle loro piattaforme.
Oltre all’eccezione riguardante i siti che non sono a scopo di lucro (come la già citata Wikipedia), è chiaro che la riforma non colpisce indistintamente tutti coloro che condividono contenuti. Più dettagliatamente, si escludono i prestatori di servizi di condivisione con un fatturato annuo inferiore ai 10 milioni di euro, quelli che non superano i cinque milioni di visite di utenti dell’UE, i cataloghi scientifici o didattici, le piattaforme di sviluppo open source, i mercati online ed i servizi cloud che permettono di fare upload di contenuti per uso personale.