Il cloud ibrido attira da sempre l’attenzione di molte aziende. Del resto l’idea alla base di una strategia ibrida (adottata nel 58% dei casi) è innegabilmente allettante: le applicazioni “mission critical” sono ospitate in un’infrastruttura on premise gestita e controllata direttamente dall’azienda; eventuali risorse aggiuntive sono invece reperite, ad un prezzo vantaggioso, su una delle tante piattaforme cloud pubbliche disponibili sul mercato.
Nel post odierno riprendiamo due contributi dedicati al cloud ibrido ed al futuro delle strategie ad esso collegate. Il primo, realizzato da Mike Bainbridge di Rackspace, è abbastanza critico nei confronti del cloud ibrido e ne preannuncia la scomparsa sul medio termine. Il secondo, a cura di Monica Brink (director EMEA marketing presso iland, aziende specializzata in soluzioni di backup e disaster recovery) è del parere esattamente opposto, arrivando a definire il 2017 come “l’anno del cloud ibrido”.
Il primo contributo
Sulla carta il cloud ibrido è un modello vincente che tuttavia si scontra in più di un’occasione con vari inconvenienti pratici. Tra gli ostacoli che hanno affossato le strategie ibride di varie aziende (altre hanno tuttavia avuto successo, occorre ricordarlo), Mike ricorda problematiche di rete (latenze troppo elevate) ed una complessa gestione dell’infrastruttura – orchestrare varie piattaforme tecnologiche non è facile. Un primo punto a favore del cloud pubblico è il minore budget richiesto alle imprese. Molte aziende, prosegue, sono arrivate alla conclusione che i benefici del cloud (ROI, flessibilità etc.) superano di gran lunga l’investimento richiesto per il mantenimento di un’infrastruttura on premise. Le strategie ibride, afferma in maniera forse troppo “brutale” Mike, sono state inventate dai vendor che vogliono continuare a vendere server, storage e strumentazione di rete.
Un secondo punto a favore, ricollegandoci a quanto detto in merito agli ostacoli, è la “semplicità” di una soluzione cloud pubblica. Semplificazione e miglioramento dei processi gestionali sono da sempre due tratti distintivi del cloud che ne hanno decretato il successo. Adottare un approccio ibrido significa aumentare la complessità generale del sistema perchè bisogna non solo occuparsi delle operazioni di testing in ambienti multipli ma anche utilizzare vari strumenti, monitorare costi separati e disporre di personale con un ampio bagaglio di competenze – abbiamo visto come siano tutt’altro che numerose le figure professionali in questo settore.
Il quadro tratteggiato da Mike parla anche del rischio che si corre oggi nel mondo IT quando si decidere di lasciare immutato l’ambiente (environment) di lavoro. I tempi in cui i CTO potevano tranquillamente posticipare la migrazione di alcuni asset nel cloud è finito, aggiunge. L’esigenza di maggiore flessibilità e la necessità di contrastare il fenomeno della shadow IT richiedono la presenza di dipartimenti IT che “abbiano il controllo” del viaggio verso il cloud, inteso come il processo di migrazione nella nuvola. Sposando pienamente la filosofia AWS e Google, Mike afferma che il cloud pubblico è la destinazione finale di tutti coloro che intraprendono questo viaggio: il cloud ibrido non è altro che una fase intermedia e di passaggio, non una strategia a lungo termine. Il “traguardo finale” è la nuvola, ribadisce Mike.
Il secondo contributo
Monica Brink cita in primo luogo recenti studi nei quali si afferma che numerose compagnie hanno iniziato a ridistribuire i propri budget cloud tra il pubblico ed il privato, incrementando la richiesta di strategie cloud ibride nel settore enterprise. Perchè così tanto successo? La Brink ce lo spiega ricorrendo ad un’abusata ma inevitabile frase: il cloud ibrido rappresenta in sostanza “the best of both worlds”. I reparti IT più avanzati, prosegue, hanno inoltre avviato attente analisi sui workload, anche affiancati dagli stessi cloud provider, al fine di determinare l’ambiente più adatto alla loro esecuzione (pubblico, privato). Per quanto riguarda i pro di un setup cloud ibrido l’editorialista ricorda:
- la scalabilità. I carichi di lavoro possono aumentare senza alcun preavviso. Un setup ibrido consente di attingere dalle risorse del cloud pubblico quando l’azienda necessita di risorse aggiuntive per gestire al meglio determinati workload. Una volta superato il momento critico è possibile “congedare” le risorse extra della nuvola e tornare alla normale esecuzione da piattaforma on premise.
- I costi. Punto che si ricollega direttamente al precedente. Come ben sappiamo il cloud è “economico” e, a differenza del cloud privato, non richiede investimenti “anticipati” (up-front investment). La possibilità di appoggiarsi a risorse esterne solleva automaticamente l’azienda dall’onere di prevedere il massimo carico di lavoro raggiungibile e di mettere da parte, in base alle proiezioni ottenute, una determinata quantità di risorse – che resterà inutilizzata per lunghi periodi incrementando le spese annuali.
- La sicurezza. Monica afferma che nonostante diverse aziende reputino ancora poco sicuro un ambiente cloud pubblico, la realtà è differente: grazie all’evoluzione delle tecnologie ed all’esperienza accumulata negli anni dai provider, le piattaforme pubbliche sono ora in grado di garantire standard di sicurezza non alla portata di piccoli e medi business enterprise. A parte questa precisazione, viene comunque ricordato che alcune applicazioni “datate” (legacy) necessitano ugualmente di ambienti on premise, ed un approccio ibrido consente di eseguirle liberamente nel loro habitat naturale.
In conclusione, le opinioni dei due “esperti” sono difficilmente conciliabili. Mike reputa inutile investire in infrastrutture on premise: se c’è già qualcuno (i provider) che mette disposizione infrastrutture e servizi di alto livello, perchè cimentarsi in un’impresa complessa e costosa? Inoltre, afferma, l’infrastruttura è raramente parte del core business. Monica, pur non nascondendo la maggiore complessità di un setup ibrido (auspica che i cloud provider forniscano strumenti di gestione che aiutino le aziende ad avere un maggiore controllo della situazione), è convinta che il tasso di adozione del cloud ibrido sia destinato a crescere ancora, screditando quindi le previsioni di Mike.