L’avventura del cloud computing iniziò nel “lontano” 2006, quando i pionieri di Amazon Web Services lanciarono la prima piattaforma cloud del mercato ed il servizio EC2 (Elastic Compute Cloud). Dovettero passare tuttavia quattro anni affinché il mercato si accorgesse della nuvola ed i business man e gli analisti iniziassero a valutarne le potenzialità. Il lancio di Windows Azure (oggi Microsoft Azure) nel febbraio 2010 e di Google Cloud Platform ad ottobre 2011 rappresentò sicuramente un importante segnale per l’industria nascente del cloud.
Vendor, clienti e gli istituti di ricerca si chiedevano, come accade del resto per ogni novità, se il cloud fosse destinato a perdurare o fosse una delle solite mode destinate a scomparire nel giro di pochi anni. Il giudizio degli analisti fu spietato: 12 mesi dopo, nel 2011, un nome importante come Gartner spostò il cloud dal gruppo del “Picco delle aspettative esagerate” a quello del “Disincantamento” – il report in questione era 2011 Hype Cycle for Cloud Computing.
Trattandosi di uno dei termini più ricorrenti (buzzword in gergo) del periodo, i detrattori parlarono immediatamente di “cloud washing”, un chiaro riferimento al “brain washing” (lavaggio del cervello). Il cloud era infatti onnipresente, dall’articolo di giornale alla news fino alle discussioni nei classici convegni: il cloud washing, si pensava, avrebbe accelerato il processo di declino della nuvola allontanandola dai riflettori. A distanza di 7 anni è possibile affermare con assoluta certezza che il cloud è destinato a restare a lungo tra noi e che la sua evoluzione è riuscita ad eccedere le aspettative di privati ed imprese.
Dal backup ai critical data
Il salto di qualità è avvenuto recentemente. A marcare in modo netto l’ulteriore affermazione della nuvola è stato il passaggio dei dati classificati come estremamente importanti per un’azienda (critical data) da ambienti on premise al cloud. Fino a qualche tempo fa il cloud era considerato dalle imprese un ottimo strumento ma solo per archivi, backup ed altri workload che non contemplassero l’utilizzo di critical data, destinati tradizionalmente ai sistemi aziendali o in house.
Ora numerose applicazioni mission critical sono invece nel cloud e non fanno rimpiangere alle aziende i tempi andati dell’on premise. 451 Group afferma che entro la metà del 2018 il 60% dei workload enterprise saranno eseguiti nel cloud contro il 41% rilevato ad inizio anno.
Al giorno d’oggi è impensabile elaborare una strategia IT senza tener conto del cloud. Non mancano in ogni caso le sfide, sia per i provider che per i clienti. Ai primi vengono richiesti degli standard di servizio sempre più elevati: un’azienda che dipende da una piattaforma cloud considera inaccettabile qualsiasi downtime (interruzioni di servizio), si aspetta estrema flessibilità e controllo delle risorse a prezzi vantaggiosi, oltre che un’assistenza d’alto livello.
I secondi devono invece comprendere se il cloud sia adatto alle loro esigenze (adatto al loro caso di utilizzo specifico) e quale provider offra la migliore soluzione. Una convinzione ancora comune, sottolineano gli addetti ai lavori, è infatti quello di reputare il cloud come la panacea di ogni problematica IT – niente di più sbagliato.
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